Non c’è leadership etica senza il “sociale” che la attraversa, tra etica della cura e cura della politica e del servizio
Gianluigi De Palo, Presidente del Forum Nazionale delle Associazioni Familiari e giornalista, diversi mesi fa ha iniziato una terapia pedagogico-popolare, per pillole, che si possono ascoltare su spotify, sul fondamento che “la leadership ha a che fare più con la vita vissuta che con i consigli dei tanti guru in circolazione”. Non possiamo che essere d’accordo. Il messaggio forte che contiene questa iniziativa è un invito al realismo rappresentato dalle problematiche sociali e, più in generale, la rappresentazione che oltre alla politica della cura e all’etica della cura, dei beni comuni, del vivere civile, dei diritti sociali, la stessa politica sia un bene da “curare” che, quel “se serve ci sono”, pronunciato da Sergio Mattarella e salutato dall’emozione collettiva del popolo, ha evidenziato plasticamente.
Il servizio che ogni leadership dovrebbe portare con sé non è qualcosa di astratto e nemmeno di occasionale. L’elogio del servizio non può iniziare e finire nel lungo applauso offerto ad omaggio del sacrificio mattarelliano da parte del Parlamento italiano, che i partiti sembrano aver dimenticato qualche ora dopo il giuramento bis del tredicesimo Presidente della Repubblica italiana. Un applauso sentito ed emozionato, ma occasionale e dal sapore ipocrita (leadership tutt’altro che etica insomma), se contestualmente non inizia un percorso di rinnovamento della classe dirigente che abbandona per sempre la deriva elitaria delle liste bloccate e dei sistemi maggioritari che, la stabilità di governo per cui sono nati, non sono riusciti a garantirla, e affida le scelte agli elettori senza paracadute per nessuno, con modalità di elezione dei rappresentanti veramente democratiche. Del resto avendo ridotto la rappresentanza dei parlamentari, giusto o sbagliato che sia stato, un fatto è incontrovertibile: il rapporto tra eletto ed elettore è meno stretto, le circoscrizioni si allargano e l’unico contrappeso democratico è eliminare ogni sbarramento e ogni elezione con lista bloccata, che ha il sapore di un’elezione precedente al voto stesso. E’ anche lo strumento per far sì che il Parlamento sia composto da chi ha capacità di tessere sintesi e mediazioni, per conto degli elettori e non dei gruppi di potere.
Ma il servizio di ogni leadership non può, come dicevamo, nemmeno essere astratto. Esso si realizza e si concretizza nelle politiche e nei servizi pubblici, che nascono per far star bene i cittadini, valorizzandone le potenzialità e alleviando le piaghe del vivere. Con questa lente di osservazione, diventa difficile pensare a leadership etiche senza il sociale che le attraversa. Se occuparsi del sociale rappresenta l’impegno a gestire la cosa pubblica per garantire benessere, ogni politica, ogni servizio, dalla sanità al welfare, dall’urbanistica alle opere pubbliche, dall’istruzione alle pari opportunità, dall’ambiente alla giustizia ai trasporti, ecc. ha una sua componente sociale, che la attraversa e ne è lo stesso obiettivo finale.
Se il ragionamento è facile da cogliere per le politiche sociali classiche ed assistenziali, in senso stretto (lo Stato eroga attraverso un contributo ad indigente una somma di denaro per far fronte alla povertà di un individuo), lo è già molto meno per la sanità, ancora troppo sbilanciata sulla cura clinica (guarigione dalla malattia) e molto poco sui suoi aspetti sociali (si vedano i costi delle migrazioni sanitarie pediatriche da nord a sud, dimenticate dallo Stato, che il mio ultimo libro “Viaggi con la speranza. Storie di famiglie colpite dalla malattia di un figlio”, (a cura di G. Budano e C. Caltabiano, Meltemi Editore 2021) ha raccontato dettagliatamente)).
Si percepiscono ancora meno gli aspetti sociali della giustizia, cogliendo facilmente che l’ordine pubblico e la sicurezza così come il perseguimento dei reati contiene in sé canoni di giustizia sociale, ma trascurando ampiamente che la reclusione di un uomo o di una donna porta con sé l’aspetto di rieducazione degli stessi e della società degenerata, la cura del suo nucleo familiare che oggi resta più nella tutela del gruppo criminale che così si autoalimenta nel consenso sociale (quando un gruppo criminale c’è) e in particolare dei bambini di quel nucleo, che di un padre e di una madre hanno bisogno e che lo Stato non può condannare irreversibilmente nelle sorti future, per le colpe dei propri genitori.
Ma si vedano anche le politiche urbanistiche o delle opere pubbliche. Il bitume di una strada, così come il cemento armato o i materiali di costruzione, al pari della modalità con cui si costruisce un’opera e dove la si colloca, ha una spiccata o meno anima sociale, che può o non può garantire benessere alla popolazione che ne beneficia, è può o non può generare un livello più o meno ampio di quel benessere. Per dirlo con le parole di Guglielmo Minervini, politico pugliese e uomo di pensiero scomparso prematuramente alcuni anni fa, “anche i binari hanno un’anima”, a cui io aggiungerei “sociale”, in quanto il trasporto delle persone per come viene progettato e realizzato cambia radicalmente prima che l’economia, il benessere delle persone.
Lo stesso vale per l’ambiente, con le drammatiche dicotomie che ha offerto con la scelta secca tra esso (cioè la salute dei cittadini) e il lavoro. Una politica ambientale, o meglio ecologica, ha una componente sociale fortissima, mentre oggi raffiguriamo le stesse con i fumi di una centrale o il giallore dei muri dell’hinterland industriale di un’area, insufficiente a dare la dimensione corretta del fenomeno complessivo e in tutta la sua complessità.
Potremmo continuare all’infinito (e dovremmo approfondire punto per punto la componente sociale di ogni singola politica pubblica, anche nelle sue interconnessioni, e quindi necessarie relazioni con le altre) e far riemergere il sociale che c’è in ognuna di essa. L’idea non è fare il partito del sociale con pensieri sociali forzati, ma al contrario ricentrare tutto sulle persone. Del resto agli uomini e alle donne di questo pianeta appartiene il mondo e per essi bisogna costruire benessere sociale. Tutto sta a trovare l’equilibrio giusto tra gli egoismi insiti nella natura umana e convincere che in questo equilibrio possono stare bene tutti, garantendo a ognuno il suo “successo” secondo le proprie capacità, ma nel benessere di tutti.
I più bravi direbbero che potremmo evolvere un nuovo umanesimo o una nuova declinazione del personalismo comunitario. Ma non è forse e più semplicemente questa la vera ripresa e resilienza?