Una valutazione di impatto amministrativo su questa particolare attività di interesse generale, luogo di interessi notevoli perché impatta su una delle principali voci della spesa pubblica e sul prioritario diritto costituzionale alla salute
È noto come gli strumenti di amministrazione condivisa introdotti dal Codice Unico del Terzo settore (co-programmazione e co-progettazione previsti dall’art. 55 e ss.) siano uno strumento più adeguato rispetto alle ordinarie procedure di appalto sul versante della soddisfazione del bisogno dell’utenza, specie quando le attività di interesse generale (e quindi potenziale luogo di amministrazione condivisa) sono quelle rivolte ai soggetti in condizione di fragilità. Adeguatezza che si declina mettendo a confronto la standardizzazione dei servizi e degli esiti delle classiche procedure di appalto e la tendenza alla personalizzazione dell’intervento degli strumenti previsti dal codice unico del terzo settore.
I recentissimi risultati presentati a Milano lo scorso 11 marzo presso l’Università Cattolica della ricerca promossa dalla Fondazione Terzjus Ets “Per un laboratorio dell’Amministrazione condivisa. Primi risultati di una ricerca multidisciplinare” a cura della Prof.ssa Barbara L. Boschetti supportano questa tesi e confermano la valutazione di chi ritiene gli strumenti di amministrazione condivisa come fondanti quel “welfare di precisione” che lo scrivente ha per la prima volta affermato alcuni anni or sono.
Nel tempo dell’avvio delle case e ospedali di Comunità finanziati dal PNRR Missione 6 e dell’accreditamento delle cure domiciliari integrate normato dall’accordo Stato Regioni che a breve diventerà portato comune di tutte le Regioni italiane (molte hanno già avviato le procedure), in presenza tra l’altro delle note difficoltà in cui versa il sistema di reclutamento pubblico delle risorse umane in sanità, è doveroso interrogarsi sull’applicazione degli strumenti di amministrazione condivisa nell’ambito della più popolare e popolosa (per i numeri dei beneficiari) e anche più costosa attività di interesse generale presente in testa all’art. 5 del codice unico alle lettere a,b e c: gli interventi sociali, socio-sanitari e sanitari, che compongono il sistema di salute (specie quella di prossimità) delle nostre comunità!
Quello che in questa sede voglio introdurre è una sorta di valutazione di impatto amministrativo dell’amministrazione condivisa su questa particolare attività di interesse generale, luogo di interessi notevoli perché impatta su una delle principali voci della spesa pubblica e sul prioritario diritto costituzionale alla salute. Luogo altresì di fortissimo interesse del privato profit e campo largo dell’ampliamento dello spazio pubblico dei partenariati con il privato.
Se è vero che sulla salute non si specula e che ogni risorsa sottratta all’utile speculativo, a parità di standard di cura, è una risorsa in più per rendere le cure maggiormente appropriate; e se è altresì vero che la salute di precisione è un obbligo e non un’opzione, a cui gli strumenti di amministrazione condivisa meglio si prestano dell’ordinario appalto (di tale ipotesi è convinto oramai anche lo stesso legislatore degli appalti che nell’ultima versione del codice ha introdotto il principio di risultato che in materia di salute assume il nome di “appropriatezza”), cosa aspetta il legislatore nazionale e regionale e lo stesso terzo settore a promuovere in questo ambito di attività di interesse generale, almeno sul versante della salute di prossimità, modelli di amministrazione condivisa riservati agli enti iscritti al RUNTS, senza escludere che si possano sperimentare servizi di sussidiarietà circolare e non necessariamente orizzontale, al fine di non escludere il profit fortemente intriso delle categorie della responsabilità sociale di impresa da tale processo?
Perché nell’attuale quadro organizzativo e normativo del sistema di salute pubblica, anche fortemente impattante con gli standard di efficienza della spesa del PNRR, non imboccare la via che mette fuori i mercanti dal tempio dei soggetti profit e no profit, per aprire le porte all’economia sociale e civile autentica fondata sulla sussidiarietà circolare nel settore della salute di prossimità (cure domiciliari, case e ospedali di comunità) e valorizzante la migliore tradizione pubblicistica, del terzo settore e del privato profit? Perché tutto deve essere per forza o pubblico o privato?
È pronta l’impresa italiana ad assumersi la sfida etica di non “speculare” più in tema di salute in nome dell’appropriatezza delle cure che è prioritaria rispetto a ogni contabilità aziendale (e da una prima valutazione potrebbe anche costar meno a parità di servizi)?
Mi pare un buon motivo perché la ricerca a tutti i livelli, a partire da quella sui sistemi di management dei sistemi di salute, inizi a impegnarsi, unitamente a un serio esame “etico” di quanto oggi emerge all’orizzonte a cura del decisore pubblico e dell’attore privato che ha scelto la mission pubblica (il terzo settore).