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Siamo tutti un po’ attori di violenza a colpi di egoismo e ipocrisia

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Occorre essere consapevoli di tutti i contributi al clima di violenza di cui siamo intrisi. La strada è moltiplicare le sentinelle, i luoghi di “soccorso” e di segnalazione, fondando una percezione di sicurezza nei confronti di chi è in difficoltà

Il dibattito sulla violenza di genere rischia di diventare ipocrita tutte le volte che si prova a confinarlo, più o meno consapevolmente, nel perimetro della commemorazione e dimenticando che prima di essere sul “di genere”, è sulla violenza!

Tale consapevolezza non sarebbe da poco se fosse traguardata nella coscienza di tutti, perché consentirebbe al fenomeno di essere affrontato non come il problema di qualcun altro, ma come il problema di ognuno di noi e con le responsabilità che ognuno di noi ha, nessuno escluso!

L’approccio, come molto si sta dicendo in questi ultimi giorni, dopo l’ennesimo dramma, è anzitutto culturale. Sì, ma nella misura in cui la cultura (e il buon senso che questa alimenta) ci faccia concentrare su tutti gli atteggiamenti violenti che, Istituzioni comprese, alimentano il conflitto, il mancato rispetto dell’altro, fino alla punta dell’iceberg dei delitti efferati come quello della povera Giulia Cecchettin.

Perché davvero qualcuno vuol convincerci che massacrare una donna è solo l’atto isolato di un assassino in preda a un delirio o a un raptus o a uno squilibrio mentale? E se pure fosse così, davvero dovremmo credere che la personalità di quell’uomo non è il frutto del cedimento di una società dove si ammazzano donne e bambini in guerra, si lasciano morire in mare gli esseri umani in ragione di presunte politiche internazionali o di ordine pubblico, si fanno crescere le liste d’attesa delle prestazioni sanitarie aumentando il rischio di mortalità della popolazione più povera che non può permettersi una visita privata, si accettano le disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra territorio e territorio, facendo pagare tali asimmetrie sul diritto alla salute e alle prestazioni sociali?

E a volte qualcuno, anche molto autorevole, ci si fa pure la ragione che questo sia il giusto a cui devono tendere le politiche pubbliche come per l’autonomia differenziata e i vari secessionismi su cui nel nord del Paese si unisce, ormai neanche molto silenziosamente, la destra e la sinistra, mentre il sud continua a dividersi alzando bandiera bianca in nome delle proprie bandiere di partito portatrici di cannibalismo sociale. Chi parla di virata culturale sulla violenza di genere dovrebbe insomma avere la consapevolezza di tutti i contributi al clima di violenza di cui siamo intrisi, senza guardare sempre e prima all’orticello del vicino, ma interrogando la propria coscienza individuale e collettiva, uscendo dal perimetro del proprio io e allargando lo sguardo alla comunità e agli effetti che il nostro io ha su di essa. In caso contrario, siamo un po’ “assassini” pure noi e poco credibile diventa la nostra commozione dinanzi ai drammi che ormai ritualmente intasano le cronache.

Il secondo aspetto su cui focalizzare l’attenzione sta poi nel non ritenere la virata culturale sostitutiva alla presa in carico di un fenomeno che richiede un approccio molto diverso da quello attuale, dove l’elemento centrale è il lavoro in rete tra medici di base, pronto soccorso, scuole, terzo settore, forze dell’ordine, magistratura, comunità. Lontani dallo stato di polizia, ma molto vicini alla logica del presidio diffuso, non possiamo ancora pensare che un centro antiviolenza in ogni Comune (che tra l’altro non c’è) possa bastare per rispondere alla violenza di genere. Idem per l’ora aggiuntiva a scuola, non solo poco utile, ma anche offensiva del lavoro dei docenti che in ogni ora di lezione educano all’empatia e al rispetto dell’altro, salvo che non vogliamo ritenerli meri dispensatori di nozioni. Sarebbe come pensare che una Caserma dei Carabinieri in ogni Comune basti a neutralizzare ogni comportamento criminale! La strada è moltiplicare le sentinelle, i luoghi di “soccorso” e di segnalazione, fondando una percezione di sicurezza nei confronti di chi è in difficoltà. Tanto rappresenterebbe anche un deterrente per chi è potenziale autore di reato, a cui bisogna offrire luoghi ove, laddove percepisce di essere un potenziale maltrattante, può trovare un riferimento per essere aiutato (rectius curato) e non (come avviene in alcuni sistemi di welfare) un luogo di riabilitazione (magari nelle intenzioni del reo solo finalizzato a uno sconto di pena) quando ormai la furia si è consumata in lesioni o addirittura omicidi e piaghe perenni e invisibili spesso sottaciute in capo ai bambini che vivono quel contesto.

La commemorazione ha senso se questa è la strada, altrimenti il rischio è che siamo un po’ tutti assassini e sempre più profondamente egoisti e ipocriti. Io mi sentirei così!

Foto in evidenza di: Ulrike Mai da Pixabay

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Gianluca Budano

Welfare manager pubblico, esperto in materia di politiche socio-sanitarie, ha diretto numerose amministrazioni pubbliche, anche in funzione di sovraordinato del Ministero dell’Interno in Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Co-Portavoce nazionale di Investing in Children – Alleanza per l’inclusione e il benessere dei minori in Italia, già Consigliere di Presidenza Nazionale ACLI, Consigliere di Amministrazione di Terzjus – Osservatorio Nazionale di diritto del Terzo Settore, della filantropia e dell’impresa sociale, componente del Direttivo Nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, dirigente di Avviso Pubblico – Associazione di Enti Locali e Regioni contro le mafie.