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Soste, ripartenze e abbracci mancati del nemico

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Foto di Mathias Reding: Pexels

Il dramma antropologico degli uomini, tra conflitti esistenziali e bellici

Diceva Nelson Mandela che “per riappacificarsi col nemico è necessario cooperare con lui, fare del nemico il proprio alleato”. Richiamare tale massima, in un periodo come quello attuale rischierebbe di soffrire la critica facile e la connotazione negativa di un pacifismo utopistico, ma se a quella massima abbinassimo la storia di chi la pronunciò dopo 27 anni di terribile prigionia, il sapore di quel messaggio del premio nobel della pace assume la direzione di una vera rivoluzione antropologica, quasi inascoltata negli anni successivi, ma concretamente testimoniata dalla vita di Mandela.

Il conflitto russo ucraino, nella sua terribile crudeltà che non scampa civili, bambini, donne e malati, ospedali e luoghi pubblici, mette in seria discussione ancora una volta l’umanità dell’uomo (humanitas) che nessun conflitto dovrebbe trascurare, nemmeno il più efferato, facendoci piombare di colpo nel passato più buio dei libri di storia.

Le grandi e piccole guerre, a ben vedere, non sono molto diverse nella loro radice dalle guerre tra clan, dalle stragi di mafia (quest’anno ricorrono i 30 anni dai tragici eventi di Capaci e Via D’Amelio a Palermo), dalla radice dei conflitti esistenziali: il tema è antropologico, riguarda cioè la natura umana, come questa si rapporta ai problemi e ai conflitti. Non voglio mischiare in un unico fascio problemi e conflitti diversi, ma il paradigma dello stop and go, delle soste e delle ripartenze, che un vissuto individuale, tra Stati, tra clan, tra gruppi, ecc. porta con sé, rappresenta l’ordinarietà di un rapporto con la vita e con le crocifissioni più o meno dolorose che questa fisiologicamente riporta, a cui corrispondono reazioni più o meno violente, fino a quelle che portano all’autoannientamento o all’annientamento dell’altro (che in comune hanno il disprezzo per la vita).

Un conflitto, di qualunque tipo, porta con sé sempre una sosta e una ripartenza: la sosta di un malessere, la ripartenza da quel malessere. A questo rapporto, dobbiamo essere “rieducati” collettivamente, e sono purtroppo pochissime le voci fuori dalle tifoserie, quelle che non additano, non semplificano, non dividono nettamente tra pro russi e pro ucraini, tra mafiosi e non mafiosi, tra razzisti e antirazzisti, tra ambientalisti e maltrattanti dell’ecosistema. Lungi dal voler affermare che siamo tutti uguali nei comportamenti sociali che esterniamo. A ben vedere, però, se non fosse in discussione l’humanitas, tali distinzioni non esisterebbero neanche in natura e questa è la cartina al tornasole che il problema non è bellico, di politica estera o di ordine pubblico, ecc., ma essenzialmente antropologico.

È arrivato il tempo di guardare dentro noi stessi, nelle pieghe delle nostre debolezze, delle nostre inefficienze, dei nostri egoismi, dei nostri orticelli e delle nostre anime individuali e collettive, abbracciando il nemico delle paure che ci spaventano, delle ambizioni che ci animano, delle sofferenze che ci segnano, nelle pieghe di ogni polo uguale che ci respinge.

Il ragionamento non è astratto.

Vuol dire arrendersi per avere la possibilità di disarmare l’aggressore per abbracciarlo. Vuol dire fermarsi, per farsi curare quando si è “affetti” da una qualunque fragilità, per ripartire sulla via del benessere fisico e psicologico. Vuol dire togliere il disturbo quando i risultati dell’esercizio di una responsabilità pubblica o collettiva è palesemente inadeguato. Vuol dire costruire un sistema pubblico di educazione, che passa per le scuole, per il comportamento della classe dirigente, per i messaggi dei campioni dello sport, per comportamenti quotidiani che formino ed educhino le coscienze al potere della vulnerabilità. Non è un ossimoro, perché potere e forza, se non sono abbinati e fondati sulla determinazione arrendevole della vulnerabilità umana, non esprimono né potenza né energia alcuna, ma solo la codarda espressione della violenza che appartiene ai mafiosi, agli aggressori, ai criminali, a chi non è capace di ricercare la felicità per la strada maestra, per imboccare l’abusiva scorciatoia della sopraffazione o della furbizia. Quanto è potente chi si pente, chi cambia idea, chi toglie il disturbo per manifesta incompetenza, chi trova la soluzione per abbracciare il nemico. Non voglio entrare nel dettaglio dei comportamenti quotidiani che potrebbero riportare la natura umana nel sentiero del rispetto dell’humanitas, vorrei solo però trasmettere al lettore che questi comportamenti riguardano anche noi, anzi, principalmente ognuno di noi, nessuno escluso, e così come esiste l’etica della cura, non è forse il tempo di occuparci della cura dell’etica?

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Gianluca Budano

Welfare manager pubblico, esperto in materia di politiche socio-sanitarie, ha diretto numerose amministrazioni pubbliche, anche in funzione di sovraordinato del Ministero dell’Interno in Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Co-Portavoce nazionale di Investing in Children – Alleanza per l’inclusione e il benessere dei minori in Italia, già Consigliere di Presidenza Nazionale ACLI, Consigliere di Amministrazione di Terzjus – Osservatorio Nazionale di diritto del Terzo Settore, della filantropia e dell’impresa sociale, componente del Direttivo Nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, dirigente di Avviso Pubblico – Associazione di Enti Locali e Regioni contro le mafie.