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Meloni, Schlein e il patriottismo sociale

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Bisogna ritornare a essere patrioti insofferenti del sociale, dove l’individuo conta quanto la collettività, il sindaco quanto il presidente del Consiglio dei ministri, l’operaio quanto l’imprenditore, l’infermiere quanto la caposala del reparto e il dirigente medico apicale

La società si evolve sempre di più attorno a tre sfide che sembrano appannaggio degli addetti ai lavori, ma sono tra le più comprensibili e popolari: la sfida culturale, la sfida antropologica e la sfida della scientificità del sociale.

Tutte e tre le sfide possono essere vinte: se alla base c’è la verità, di chi la cerca costantemente e di chi la trova, che vuol dire liberarsi dalle menzogne su cui si fonda buona parte dello stato sociale ed emotivo dei tempi moderni; se si vive per essere all’altezza del compito difficile di essere esseri umani in relazione, condizione straordinariamente difficile ma anche straordinariamente appagante; se si va in profondità alle cose nella ricerca di uno spazio di umiltà necessario per condividere la lotta di essere nello spirito di mediazione del saper essere e del saper fare, che trova nella mediazione umanistica un approccio rigenerativo delle relazioni, in ambito organizzativo e manageriale, in forma diffusa.

La ricerca di quanto essere base, quanto alti e quanto profondi è il compito che ha davanti l’individuo e la società. Maggiore è l’intensità, maggiore è l’amore che l’uomo dimostra a se stesso, alla sua complessità, allo straordinario miracolo che è una vita umana.

Si tratta di fondare un nuovo paradigma, che inaugura la stagione del patriottismo sociale, inedita espressione che in questa sede introduciamo richiamando la dottrina del personalismo comunitario di mounieriana memoria e che potrebbe fare breccia in entrambe le culture politiche prevalenti (di destra e di sinistra), che troverebbero la banale convergenza, smarrita da troppo tempo, sull’uomo. A pensarci bene, il nostro patriottismo è fatto sì di amore per il nostro luogo di nascita e di vita, per la nostra lingua, le nostre tradizioni, la nostra storia, ma consiste soprattutto nella profonda devozione e nella fedeltà al popolo, all’uomo, al lavoratore, al futuro che crea una nazione vera, ma prima ancora devota all’umanità.

È vero anche però che la realtà eccede l’etica e la norma. Ma per quanto ancora deve essere una regola? Ma quanto ci sforziamo perché questo divario venga colmato con continuità? Quanto siamo adeguati come individui, come popolo e come classe dirigente? Quanto siamo “competenti” e responsabili nel nostro vivere quotidiano, nel nostro ruolo di padri, madri, lavoratori, genitori, pastori, politici, decisori e cittadini? Perché l’angoscia prevalente ci prende quando rapportiamo le nostre azioni agli effetti che provocano su di noi e tendiamo invece all’indifferenza rispetto agli effetti collettivi (che su di noi ritornano comunque in seconda battuta)?

Bisogna ritornare a essere patrioti insofferenti del sociale, dove l’individuo conta quanto la collettività, il sindaco quanto il presidente del Consiglio dei ministri, l’operaio quanto l’imprenditore, l’infermiere quanto la caposala del reparto e il dirigente medico apicale, ecc. È l’importanza del singolo uomo che fonda questo nuovo paradigma antropologico e di impegno, che dopo un periodo troppo lungo di disorientamento e disordine vuole mettere ordine, capacitare gli esseri umani, facendoli sentire (perché sono) ognuno per quello che sa fare meglio, parte di un progetto più grande. La soluzione non è mai altrove rispetto all’individuo, ma quando si rimane nel proprio perimetro quasi fosse un recinto, diventa individualismo e morte della collettività e con essa morte delle emozioni, quelle stesse emozioni che dinanzi alle bare di Crotone avrebbero dovuto alimentare lacrime, ma prima di tutto rabbia, come quella rabbia che fermò il contrabbando dopo la morte di due giovani finanzieri. Non è stato così per le morti in mare e nemmeno per i braccianti uccisi dallo sfruttamento dei caporali e nemmeno dinanzi alle vittime innocenti di mafia. Ma davvero ci vogliamo rassegnare all’idea che l’uomo non può annientare ciò che lo stesso uomo ha generato?

La competizione partita (e ci auguriamo collaborazione) tra Meloni e Schlein, garantirà la carica di “umanizzazione” delle rispettive proposte politiche e di conseguenza di quelle del Paese tutto? La prima volta in rosa contemporanea di due donne alla leadership del Paese, nel governo in carica e in quello ombra, che come ci insegna la prima Repubblica conta quanto l’immagine principale che lo proietta, rimuoverà per sempre l’ipocrisia dello Stato di non riuscire a risolvere i mali atavici che una minoranza della popolazione sfrutta e governa?

Foto in evidenza di Joseph Redfield Nino da Pixabay

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Gianluca Budano

Welfare manager pubblico, esperto in materia di politiche socio-sanitarie, ha diretto numerose amministrazioni pubbliche, anche in funzione di sovraordinato del Ministero dell’Interno in Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Co-Portavoce nazionale di Investing in Children – Alleanza per l’inclusione e il benessere dei minori in Italia, già Consigliere di Presidenza Nazionale ACLI, Consigliere di Amministrazione di Terzjus – Osservatorio Nazionale di diritto del Terzo Settore, della filantropia e dell’impresa sociale, componente del Direttivo Nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, dirigente di Avviso Pubblico – Associazione di Enti Locali e Regioni contro le mafie.