Welfare e salute

 

Cittadini, sicurezza, salute e lavoro

 

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Sanità per tutti (a parole), servizi a seconda di dove vivi (nei fatti)

da

Foto di Eddie K da Pixabay

La regionalizzazione dei sistemi sanitari ha di fatto creato cittadini diversi, di serie A, B e a volte C, oltre a una sorta di campionato tra ASL e Regioni

In un precedente post ho inaugurato una serie di riflessioni che concretizzano una breve rassegna delle ovvietà, tanto ovvie e tanto “facili” da risolvere, che solo l’assenza di volontà di chi governa ai vari livelli può essere il motivo della loro esistenza in vita. Ma tanto ovvie che dovrebbero generare indignazione, mentre l’atmosfera è quella della rassegnazione, quasi, abbiamo già detto, da Truman Show politico all’italiana, a cui il nostro Paese, purtroppo, ci ha abituato da troppo tempo.

Intanto bisogna chiarire che quando diciamo “di chi governa”, ci riferiamo ai vari livelli di governo e ai distinti centri di responsabilità: per il sistema di salute vi è il livello centrale (nazionale), regionale (sistemi sanitari regionali) e locale (il Sindaco è Autorità Sanitaria Locale); per i centri di responsabilità vi sono quelli politici, amministrativo/manageriali, delle professioni (chi opera concretamente, con annessi i rispettivi livelli di rappresentanza della categoria o sindacali). Tale premessa non per deresponsabilizzare qualcuno, ma per responsabilizzare tutti i pezzi del sistema interessato. È chiaro che il “peso” dei vari pezzi è diverso, ma è altrettanto chiaro che nessuno può sottrarsi alle sue responsabilità: un medico, per esempio, può scegliere o meno se fare la libera professione pur essendo dipendente del sistema pubblico, se sostenere nel proprio ordine professionale o nel proprio sindacato questa o quella tesi; così come un sindaco può scegliere o meno se esercitare le proprie prerogative nella conferenza dei Sindaci delle Aziende Sanitarie Locali, limitate ma esistenti, quando approva una programmazione o il bilancio annuale, con un parere non vincolante, ma “pesante”, perché forte del mandato dei propri elettori, gli stessi che eleggono i presidenti di Regione che a loro volta nominano i manager delle ASL.

Ma l’ovvietà che vorrei rappresentare in questa riflessione attiene all’accesso ai servizi sanitari, dimostrando che la regionalizzazione dei sistemi sanitari ha di fatto creato cittadini diversi, di serie A, B e a volte C, oltre ad una sorta di campionato tra ASL e Regioni, dove le serie inferiori finanziano quelle superiori, fondato sulla regola di Robin Hood applicata al contrario, su cui si regge in particolare la mobilità passiva.

Tutti sapranno che ai sensi della nostra Carta Costituzionale, siamo dotati di un sistema sanitario universalistico, cioè dove il diritto alla salute è garantito a tutti. Questo è un fatto.

Sappiamo altresì che l’universalismo si fonda su un sistema sanitario nazionale a cui si affiancano quelli regionali, in un modello dove sostanzialmente i livelli essenziali di assistenza (cioè il minimo sindacale che spetta a tutti in sanità, a cui si affiancano i livelli essenziali delle prestazioni sociali, cioè il minimo sindacale del welfare) li fissa il centro, nel contempo la periferia attua e gestisce sulla base però del finanziamento nazionale ricevuto e di quanto riesce a reperire nei propri bilanci (che si alimentano della ricchezza locale e quindi, se l’economia tira meno, meno risorse il governo locale ha a disposizione).

Non mi addentrerò in disquisizioni tecniche sui criteri di riparto, ma resterò sull’individuazione e sulla rappresentazione dell’ovvietà irrisolta. Citerò solo uno dei notissimi e famigerati criteri di riparto delle risorse del fondo sanitario nazionale che vede la Puglia e l’Emilia Romagna a parità grosso modo di popolazione residente, con una differenza enorme di finanziamento ricevuto. Il perché? Il criterio di riparto si fonda sostanzialmente sulla popolazione anziana (che in Emilia Romagna è nettamente superiore) e conta la virtuosità del tuo sistema sanitario regionale. Risultato: se sei in serie B hai meno risorse a disposizione per salire in serie A (come avviene nel calcio), con la particolarità che la tua fragilità strutturale perché non hai le risorse a disposizione per dotarti dei migliori medici e delle migliori attrezzature e infrastrutture, per investire su strutture di ricerca territoriali, produce un solo risultato: che i cittadini avranno un’assistenza sanitaria e una speranza di vita più o meno alta, a seconda del luogo di nascita e di residenza.

Quelli bravi direbbero che esistono i meccanismi di perequazione, cioè strumenti per compensare le differenze tra territori. Ma noi meno bravi che vediamo i risultati, prendiamo atto che governare nelle aree più povere  è molto più difficile che nelle aree ricche del Paese; ma prendiamo altresì atto che chi nasce da Roma in giù muore di più in culla rispetto ai suoi connazionali del centro nord, ha una speranza di vita minore e quando parte per un viaggio della speranza perché ha i soldi o pur non avendoli si impoverisce, potrebbe salvare se stesso, ma sta inconsapevolmente impoverendo il proprio territorio e le possibilità di condizioni migliori per i propri figli.

La colpa non è ovviamente di chi parte, ma il buon senso comune ci dice che il sistema attuale non è universalistico, è improntato al cannibalismo tra Regioni e genera enormi disuguaglianze. Bisogna tornare a potenziare la centralizzazione del sistema sanitario? Non lo so, ma ho la sensazione che l’unica cosa che non si è fatta è quella di centrare le politiche della salute sulla singola persona, gettando nella pattumiera il nostro diritto alla salute costituzionalmente garantito per tutti e per ciascuno. Sì, perché quando anche un solo cittadino muore prima di un altro a parità di patologia o viene semplicemente curato in maniera meno appropriata, per il modello organizzativo su cui si fonda un sistema di cura (che è fatto non solo di clinica, ma dei cosiddetti determinanti della salute), il significato non può essere altro di quello narrato nelle conclusioni drammatiche, e ovvie, di questa riflessione!   

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Gianluca Budano

Welfare manager pubblico, esperto in materia di politiche socio-sanitarie, ha diretto numerose amministrazioni pubbliche, anche in funzione di sovraordinato del Ministero dell’Interno in Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Co-Portavoce nazionale di Investing in Children – Alleanza per l’inclusione e il benessere dei minori in Italia, già Consigliere di Presidenza Nazionale ACLI, Consigliere di Amministrazione di Terzjus – Osservatorio Nazionale di diritto del Terzo Settore, della filantropia e dell’impresa sociale, componente del Direttivo Nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, dirigente di Avviso Pubblico – Associazione di Enti Locali e Regioni contro le mafie.