Foto di Niek Verlaan da Pixabay
A più di un anno dallo scoccare dello tsunami pandemico, da tanti paragonato a una guerra in corso per gli effetti sociali ed economici che sta producendo, quella coralità dei flash mob che abbiamo vissuto nei periodi di lockdown, pare molto lontana. Come capita di solito nelle emergenze, il rischio del si salvi chi può è sempre dietro l’angolo.
Tutti (o molti) vorrebbero un vaccino, compresi coloro che non interrogano la propria coscienza adottando una condotta individuale che protegga se stessi e gli altri, con l’utilizzo di dispositivi di protezione e con uno stile di vita adatto a tempi così difficili.
Tutti (o molti) vorrebbero un ristoro per la propria categoria danneggiata o una deroga che consenta la ripartenza del proprio io o del proprio sodalizio.
Tutti (o molti) predicano che bisogna salvare tutti i passeggeri del titanic pandemico, ma l’occasione di una scialuppa sicura è spesso una tentazione forte.
Mentre, (senza ovviamente generalizzare), orti, orticelli e fortini dominano, i più fragili diventano più fragili e arretrano nei diritti sociali, i più “forti” (se tali si possono definire nel periodo storico che stiamo vivendo) sono avvantaggiati nel resistere e in tanti casi nell’avanzare.
Le grandi guerre e le grandi pandemie, ci insegna la storia, hanno visto la ripartenza su schemi completamente nuovi; la sensazione è che siamo però ancora convinti che tutto ritornerà come prima, come gli slogan ci dicono da un anno e più; mentre: i nostri bambini hanno accumulato un ritardo educativo, cognitivo e relazionale enorme (come un criceto che percorre una ruota che gira su stessa, così sta scorrendo l’anno scolastico in corso) tra did, dad e simili; i nostri anziani resistono nelle loro case; la prevenzione sanitaria (lo denunciano ad esempio da mesi gli oncologi) è sospesa dalla oggettiva paura di frequentare le strutture preposte; le disuguaglianze aumentano a dismisura, tra i nord e i sud, tra ricchi e poveri, tra generazioni; lo Stato, parla a troppe voci, tra governo centrale, presidenti di Regione e Tar di turno, quando i soggetti dovrebbero essere plurimi, ma la voce unica, come una pandemia richiederebbe.
La denuncia senza la proposta serve però a poco.
Quest’ultima richiede anzitutto un atteggiamento nuovo e una coraggiosa consapevolezza.
L’atteggiamento nuovo è quello di rivisitare il concetto di democrazia, nella misura in cui in nome delle rottamazioni, dell’antipolitica e del populismo abbiamo demolito il valore assoluto delle competenze della classe dirigente, additandole come élite culturali, professionali e di studio, senza accorgerci che senza di esse la sovranità non appartiene al popolo, ma alla peggiore parte di esso.
La coraggiosa consapevolezza da riscoprire è che una pandemia, come un conflitto bellico, cambia le menti e non solo le tasche, uccide un popolo e non singole migliaia di uomini e donne, pregiudica il futuro e non solo il presente.
Atteggiamento nuovo e coraggiosa consapevolezza che richiedono la scelta per priorità: prima di tutto colmare le disuguaglianze riscrivendo quello che gli addetti ai lavori chiamano livelli essenziali di assistenza e di prestazione, per i più significa fissare diritti che ovunque nasci, cresci, vivi, ti ammali, la risposta dello Stato e della comunità è sempre la stessa, specie per i nostri bambini, ancora oggi i grandi dimenticati o peggio ancora quelli più volte ricordati nella consapevolezza di fare il massimo, mentre il minimo sindacale è abbondantemente lontano dall’essere raggiunto.