Welfare e salute

 

Cittadini, sicurezza, salute e lavoro

 

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Non esiste salute e welfare senza la cura delle emozioni dei cittadini

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Foto di Sabine van Erp da Pixabay

Per un nuovo modello di social and emotional health, per declinare istituzionalmente l’umanizzazione delle cure

Scriveva Kreisberg, che il potere è all’interno di un’azione in comune, nell’ambito di uno sviluppo congiunto e di una relazione reciproca, anche se non simmetrica, in cui si giocano i diversi gradi di libertà degli individui: potere con, piuttosto che potere su.

La cura della salute porta nell’immaginario collettivo l’essenza del potere delle conoscenze e delle competenze tecniche (mediche), una delle forme maggiormente e plasticamente percepibili del potere su. A pensarci, così è. Del resto, al netto dei movimenti no vax, nessuno di buon senso discute di medicina senza essere un operatore qualificato della sanità.

È noto però come un buon medico, ma più in generale un buon operatore della salute, welfare compreso, coopera con il proprio assistito, utente, paziente. Tanto sul presupposto che una malattia come una qualunque fragilità, incrocia le emozioni di chi la vive e richiede la capacità di comprenderle e gestirle a chi le cura.

Ma le emozioni quanto contano nei modelli sanitari e di welfare in generale?

La domanda non vuole comprendere il grado di empatia dei nostri medici, infermieri, assistenti sociali, ecc., ma vuole comprendere quanto il sistema pubblico investe sulle competenze “emozionali” dei nostri professionisti della sanità e del welfare, della salute per farne sintesi. Vuole inoltre comprendere quanto il sistema complessivo di presa in carico delle fragilità punta sulla cura e soddisfazione dei bisogni emotivi dei cittadini: insomma un’analisi del grado di come si atteggia il potere delle conoscenze e delle competenze in questo settore, se come un potere su o un potere con il fine di rendere umana ogni cura, nel senso di occuparsi della persona umana nel suo complesso, aspetti emozionali compresi.

La disquisizione non è teorica.

Se una patologia accertata in un ospedale, deve essere riaccertata per una prestazione INPS, siamo lontani dal potere delle cura con il cittadino, perché non è il sistema di salute pubblica che si adatta alle sue fragilità, ma la fragilità che per essere curata deve adattarsi all’organizzazione dello Stato, generando (emozioni di) insicurezza e disorientamento.

Se i consultori familiari (tralasciando la medicina di base), unico luogo di prossimità di prima “alfabetizzazione” dei cittadini alla sanità e di presidio psicologico di una comunità, sono la periferia (per investimento pubblico di risorse) del SSN, con una spesa comparata tra le più basse in Europa, sotto organico e con forti differenze regionali, la disquisizione non è davvero teorica, ma molto concreta e sostanziale.

E come umanizzare le cure, se la sanità non dialoga con il welfare e il welfare non dialoga con la sanità? Non perché non lo vogliano i professionisti che se ne occupano, ma semplicemente perché non si vuole comprendere che la percezione di sicurezza sociale e sanitaria passa per la reputazione di un sistema pubblico che viene percepito appunto come sicuro, come la sicurezza e l’emozione che suscita un padre e una madre che accoglie le fragilità di un figlio. Anche questa è cura delle emozioni, cura collettiva e individuale nello stesso tempo, che passa per la consapevolezza del cittadino fragile che può affidarsi mani, piedi e anima ai luoghi di pubblica cura.

Il primo passo, per invertire la rotta nella direzione della social ed emotional health, è abbattere il limite degli steccati professionali, nella necessaria distinzione delle competenze, con organici dei servizi sociali e sanitari che ispirati alla componente sociale ed emozionale della cura, vedano numeri certi sulla presenza delle professioni nei singoli comparti pubblici, come è stato per il numero di assistenti sociali in rapporto agli abitanti o per il numero di sanitari su cui si accredita una struttura, con l’attenzione ulteriore che ogni comparto, servizio, luogo di cura abbia il dimensionamento multiprofessionale adeguato per curare globalmente le fragilità, non più a toppe o a pezzi o a compartimenti stagni.

Non serve più puntare a imporre una determinata figura professionale ogni tot abitanti, ma sapere che un luogo di cura delle fragilità, siano esse sociali o sanitarie, abbia il set di professionisti e relative prestazioni che servono a quel caso, emozioni comprese.

È arrivato il tempo della consapevolezza che tra i livelli essenziali delle prestazioni, la qualità, l’investimento di risorse, i parametri vanno rapportati alla persona e ai suoi bisogni che nelle fragilità si amalgamano e non si sommano algebricamente? Proprio come avviene per i sentimenti e le emozioni, che non si sommano ma si mescolano amalgamandosi e contaminandosi e che, dello stato di salute, sono l’indice di riferimento su cui misurare la “guarigione” vera.

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Gianluca Budano

Welfare manager pubblico, esperto in materia di politiche socio-sanitarie, ha diretto numerose amministrazioni pubbliche, anche in funzione di sovraordinato del Ministero dell’Interno in Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Co-Portavoce nazionale di Investing in Children – Alleanza per l’inclusione e il benessere dei minori in Italia, già Consigliere di Presidenza Nazionale ACLI, Consigliere di Amministrazione di Terzjus – Osservatorio Nazionale di diritto del Terzo Settore, della filantropia e dell’impresa sociale, componente del Direttivo Nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, dirigente di Avviso Pubblico – Associazione di Enti Locali e Regioni contro le mafie.