Welfare e salute

 

Cittadini, sicurezza, salute e lavoro

 

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Tra dimensione biologica e relazionale non c’è di mezzo il mare

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Foto di Brian Merrill da Pixabay

Non voglio un Paese di manager, ma la costruzione di una managerialità diffusa nella quotidianità del ruolo

Diceva un noto proverbio popolare che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

L’affermazione è vera e fondata, perché le parole (la dichiarazione di un fare) senza i fatti che ne conseguono (il fare che segue al dichiarato) rischiano di essere vuote di significato o, più che vuote, restare nell’esercizio del dichiarare. Ma a veder bene anche i fatti, senza le parole, rischiano di essere vuoti, perché se le parole sono frutto di un pensiero che matura, diventa difficile che ci siano opere (ben fatte) senza di esse.

Accade lo stesso al rapporto tra fede e opere. “Una fede senza opere non è fede, è solo parole, senza il frutto nella vita, una fede che non dà frutto nelle opere, non è fede” ci ha ricordato più volte Papa Francesco ricordando il passo della Lettera di San Giacomo Apostolo, il Santo del fare o meglio, del fare pensato. Ma a veder bene è vero anche il contrario, o meglio è vera la necessaria reciprocità, lo scambio biunivoco che deve esserci tra i due fattori: il dire e il fare, la fede e le opere, il pensare e il fare (il fare pensato), ma anche la dimensione biologica e quella relazionale.

Il tema può sembrare per cultori delle materie logico-filosofiche. Ma non è assolutamente così, perché non c’è argomento più popolare e cruciale di quello di cui discutiamo, in un tempo (che dura da troppo) in cui l’opinione si divide tra la competenza e il fare i fatti, come se il pragmatismo non sia esso stesso parte di una cultura che, se non c’è, la rende assente.

Per rendersi conto della non astrattezza del tema, si pensi solo al rapporto tra dimensione biologica e relazionale. È il caso della differenza che passa tra la guarigione clinica da una malattia e quella psicologica, oppure tra il buon esito di un intervento chirurgico (il giudizio sul buon esito è esso stesso relativo a seconda del parametro di riferimento sul versante del successo, salvare la vita del paziente con l’amputazione di una gamba o salvare la gamba stessa, ad esempio) e la condizione economica e sociale del “guarito” e della sua famiglia dopo una grave malattia (emerge il tema degli aspetti sociali delle malattie).

Ho più volte richiamato l’attenzione sul caso, non di scuola, delle migrazioni sanitarie pediatriche per gravi malattie, dove bambini gravemente ammalati combattono la morte e le loro famiglie vengono traumatizzate ulteriormente dalle condizioni economiche che si generano, per la ricerca di un alloggio, per la perdita di un lavoro a nero, per la preoccupazione per gli altri figli minori abbandonati a lunghi periodi con genitori a intermittenza, ecc….nel silenzio dello Stato e con la risposta spontanea e non istituzionale, ma organizzata e dove c’è, del volontariato sociale: evidente è la cesura tra la guarigione (clinica) da una malattia e quella relazionale, dove spesso se si sopravvive alla malattia, si imbocca il tunnel della fragilità sociale cronica.

Tra la dimensione biologica (clinica, la guarigione del corpo) e quella relazionale, non c’è di mezzo il mare e nemmeno un burrone. Non c’è da spostare rocce inamovibili, ma solo l’acquisizione della consapevolezza della complessità dell’uomo e la conseguente riorganizzazione della macchina pubblica che risponde alle fragilità di ogni tipo in modo integrato e multidimensionale, in una parola nota ai più, in modo manageriale.

Non voglio ovviamente riempire il Paese di manager e di alti dirigenti, ma pensiamo alla costruzione diffusa di una managerialità diffusa nella quotidianità del ruolo, dove ognuno, nella sua quotidiana opera, alla guida di una Azienda Sanitaria o di un settore comunale o nella specifica attività di operatore di sportello, di medico, di infermiere, di assistente sociale, di pedagogista, ecc. lavora con le categorie di un manager, cioè con la mente aperta alla trasversalità del sapere e del fare, del parlare e del costruire ciò che dichiara. A quel punto, in una macchina organizzativa pubblica (a prescindere dalla natura pubblica o privata di chi eroga un servizio, ma con il carattere pubblico dell’accesso ad esso) così configurata non ci saranno più migrazioni pediatriche emarginate nei loro aspetti sociali e diversi dalla cura clinica del piccolo paziente, erogazioni di denaro agli indigenti senza guardare all’inserimento lavorativo del beneficiario, reclusi senza un sistema organizzato e solido funzionalizzato alla giustizia riparativa, tossicodipendenti con prevalenti risposte farmacologiche e ludopatici trattati come se non fossero malati, diversamente abili con il diritto al collocamento obbligatorio nel mondo del lavoro e senza inclusione lavorativa (a proposito della cesura tra dire e fare, anche se in questo caso il dire è una legge dello Stato).

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Gianluca Budano

Welfare manager pubblico, esperto in materia di politiche socio-sanitarie, ha diretto numerose amministrazioni pubbliche, anche in funzione di sovraordinato del Ministero dell’Interno in Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Co-Portavoce nazionale di Investing in Children – Alleanza per l’inclusione e il benessere dei minori in Italia, già Consigliere di Presidenza Nazionale ACLI, Consigliere di Amministrazione di Terzjus – Osservatorio Nazionale di diritto del Terzo Settore, della filantropia e dell’impresa sociale, componente del Direttivo Nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, dirigente di Avviso Pubblico – Associazione di Enti Locali e Regioni contro le mafie.